Questo testo nasce come lettera alla comunità dell’associazione YaBasta! di Scisciano, a loro si rivolge e per loro è pensata. Diviene pubblica ed allargata perché c’è una domanda di fondo che potrebbe interessare tutte le realtà della “sinistra sociale” che ogni giorno costruiscono sui loro territori pratiche di mutualismo e di solidarietà. La questione che mi pongo e che vi pongo è diretta e non fa sconti: le nostre pratiche sono sufficienti? cosa viene dopo?
Care/i YaBastine/i
vi scrivo oggi, che è il 10 Ottobre 2018, una data che ai più non dirà molto, ma per noi rappresenta un punto fermo. In questo stesso giorno. dieci anni fa. nasceva la nostra associazione in modo “formale”. Certo, essa già viveva da diversi mesi in forma di collettivo, ma quel 10 Ottobre divenne qualcosa di più, qualcosa di diverso. Cominciava quella lenta trasformazione che ci ha portati ad “essere ciò che facciamo”. Il fare quotidiano, l’azione lenta e instancabile che abbiamo portato avanti in questi anni ci ha caratterizzato nell’area nolana come un piccolo presidio di civiltà, sicuramente insufficiente eppure così importante.
Parlano i fatti: in un paesino di 5000 abitanti, da 8 anni portiamo avanti un doposcuola completamente gratuito per i ragazzi delle medie e delle elementari, da 4 anni un corso di italiano per stranieri, da circa 9 anni teniamo in piedi svariati percorsi di aggregazione sulle tradizioni popolari e contadine. Inoltre siamo diventati uno strumento di inclusione per persone con disabilità e per migranti. E poi ancora: tantissime iniziative culturali, i laboratori artistici e musicali gratuiti, le presentazioni di libri, l’impegno per il recupero degli spazi della ex vesuviana, il lavoro sulla memoria e sulle quattro giornate di Napoli, la solidarietà quotidiana verso le famiglie in difficoltà. Insomma, se sfogliamo l’archivio della nostra storia associativa c’è davvero tanto, ed è davvero entusiasmante (vi invito a farlo attraverso la pagina facebook, che forse meglio del sito racconta tutta questa storia di periferia, con immagini e video spesso teneramente imbarazzanti).
Eppure non è di questo che voglio parlarvi in queste righe, che sono rivolte a voi ma anche ad un pubblico più ampio (e quindi non posso lasciarmi andare a sentimentalismi o auto-celebrazioni; tanto più che in un momento così difficile per questa nostra terra, potrebbero sembrare quasi una presa in giro). Voglio invece provare a costruire una riflessioni sui limiti del nostro percorso. So bene che può sembrare una scelta infelice quella di parlare dei nostri dieci anni partendo dai limiti; ma dal momento che ci siamo sempre caratterizzati per una ricerca continua di strumenti e identità, penso che questa mia provocazione rientri appieno nello stile YaBasta!
In questi anni siamo passati dall’essere un collettivo culturale ed aggregativo alla strutturazione di un’associazione stabile, caratterizzata per l’impegno sociale e solidale sul territorio. Oggi siamo a Scisciano, ma anche nei paesi limitrofi, un soggetto chiaramente identificato. Siamo infatti quelli del doposcuola, delle tammurriate, dei migranti. Abbiamo quindi una chiara connotazione popolare e politica che ci colloca nella schiera di quelli che costruiscono una prospettiva altermondista (cioè, che aspira a costruire un mondo diverso, “altro” da quello che abbiamo davanti) secondo il vecchio ma attuale slogan “pensare globale, agire locale”. Noi costruiamo incessantemente pratiche positive; e però negli ultimi anni è palpabile una trasformazione in peggio del nostro territorio, e finanche del nostro tessuto sociale di riferimento. Contemporaneamente alle nostre pratiche è avanzata, infatti, la barbarie.
Una barbarie che oggi si manifesta apertamente nello slogan “prima gli italiani” e nei vergognosi fatti di Lodi (coi bambini stranieri esclusi, attraverso penosi cavilli burocratici, dalle mense scolastiche) e di Riace (con gli abitanti-migranti che dovranno lasciare le loro abitazioni e il paese che li aveva accolti). Il punto è che questa barbarie non è nata all’improvviso, come un fungo dopo un temporale. È stata invece costruita progressivamente negli ultimi anni. E ha trovato i varchi aperti forse anche per la nostra disattenzione, per le nostre carenze di analisi e di visione complessiva. Non penso, ovviamente, che col nostro solo impegno si sarebbe potuto costruire un argine alla deriva nazionalista e razzista del nostro Paese (e non solo del nostro Paese); credo però che sia stato un vero peccato aver trascurato lo studio, in questi anni, dei processi reali.
Di fatto, il nostro mutualismo – nato per fornire un nuovo tipo di risposta alla crisi umana, economica e politica che ci ha colpito, e per costruire nuove pratiche politiche più dirette e immediate – ci ha assorbito sempre più nell’azione quotidiana e di prossimità. È stato naturalmente un bene coinvolgersi fino in fondo, perché così siamo riusciti a diventare un vero presidio sociale, una sicura comunità di riferimento per l’accoglienza e la solidarietà. Ma dobbiamo ammetterlo: questo impegno così totalizzante e gravoso ci ha fatto perdere di vista il pensare globale e, soprattutto, lo slancio dell’analisi, dello sguardo lungo sullo stato di cose esistenti. Ed esso è davvero indispensabile per rimodulare, adattare e ricalibrare i percorsi sociali alla realtà quotidiana. Le pratiche sociali, infatti, come tutto ciò che nasce in modo “antagonista” al sistema di potere, rischiano continuamente di essere riassorbite, destrutturate ed impoverite della loro carica trasformatrice. Non è un caso che l’ultimo decennio ha visto il gonfiarsi a dismisura del cosiddetto “terzo settore”, con pratiche di solidarietà facilmente convertite a “stampella” del welfare statale e rese tranquillamente inoffensive, integrate col sistema delle ingiustizie sociali e della governance capitalistica. Con questo non voglio certo dire che l’azione del terzo settore sia “inutile” o addirittura “controproducente” ai fini della prospettiva di un mondo più umano e più giusto. Tutt’altro. Anzi, il suo riconoscimento anche sul piano normativo e l’essere diventato contiguo ai meccanismi di governance rappresenta anche una grande possibilità per l’azione politico/sociale. E’ un dato di fatto, però, che questa “contiguità”, voluta o meno, ha causato un cambio di prospettiva ed una miopia nello sguardo generale sul mondo.
Io credo che solo il riassetto assiduo degli obiettivi e delle strategie e il riaggiornamento continuo della nostra pratica concreta possano salvaguardare oggi il valore conflittuale del mutualismo, renderlo una risposta efficace alla barbarie crescente. Ma per svolgere questo tenace lavoro di ridefinizione ed adattamento dei percorsi, occorre tenere aperta una sostanziale dinamica di studio ed analisi dei processi reali, sia globali che territoriali, senza lasciarsi spaventare dallo sforzo intellettuale. Ancora una volta ci viene in aiuto l’esperienza zapatista.
In Chiapas diedero vita, nel 2015, ad un enorme e permanente seiminario (o semenzaio, come loro preferiscono chiamarlo). Nel discorso che aprì i lavori di questo percorso ininterrotto di incontro tra le comunità indigene, il Sup Galeano diceva: “speriamo che queste parole servano ad alimentare il dubbio, le domande, gli interrogativi. Per il resto, la tormenta sta arrivando. Bisogna prepararsi”. Si è trattato, e si tratta, di un grande lavoro culturale: gli zapatisti hanno chiamato a raccolta intellettuali e compagni di base per sollevare dubbi, per far posto alla pratica ma anche alla riflessione su questa pratica. Ecco, io penso che proprio di questo si tratta, e che il modo migliore per celebrare il nostro decennale sia dar vita ad una forte riflessione sulla pratica che facciamo e sul mondo nel quale essa concretamente si situa. Di fronte alla tempesta che sta arrivando sempre il Sup afferma:
Non stiamo facendo un partito o un’organizzazione, stiamo facendo un avvistamento. Per farlo abbiamo bisogno di concetti e non di buone intenzioni; abbiamo bisogno di pratica con teoria e di teoria con pratica; abbiamo bisogno di analisi critiche e non di definizioni. Per guardare fuori, dobbiamo guardare dentro. Le conseguenze di ciò che vedremo e di come lo vedremo, saranno una parte importante della risposta alla domanda – cosa viene dopo?- ”.
È tutto, care yabastine e cari yabastini. Proprio per rispondere alla domanda di fondo del “cosa viene dopo?”, la mia idea è che dobbiamo mettere in campo una riflessione che parta sì dalle pratiche che ogni giorno facciamo qui a Scisciano, ma che però cerchi, nello stesso tempo, di coinvolgere il mondo, le grandi lotte, i grandi tentativi di assalto al cielo. Facendone la genealogia, se è il caso: appunto per riuscire a riversare i saperi della “utopia concreta” su questa società in continua trasformazione.
In breve, vi propongo di dar vita, anche noi, ad un semenzaio, ad uno spazio di riflessione in cui invitare soggetti sociali, scrittori, filosofi e operatori dell’utopia, chiedendo loro di provocarci, raccontarci storie, lotte, identità. Vi propongo quindi un semenzaio da costruire assieme nei temi e nelle metodologie, dando inizio ad un nuovo cammino che tenga assieme pratica e teoria. L’obiettivo è di resistere alla tempesta che rischia di abbattersi su di noi distruggendo l’enorme lavoro di questi dieci anni. Non lo possiamo permettere. E io sono fiducioso: so che, come sempre, sapremo essere argine che difende, mano che accarezza, sguardo che scruta l’orizzonte.
Con affetto.
Scisciano, 10 ottobre 2018
Alessio